lunedì 20 dicembre 2010

Università. Un disegno distruttivo.

Intervista a Luigi Guerra
A cura di Bijoy M. Trentin


L’università italiana sembra dover far fronte sempre agli stessi problemi: lo «scoglio delle lentezze procedurali» e «le sabbie mobili degli interessi “baronali”» (così M. Tosatti, in un intervento su La stampa del 1980, al tempo della 382 , oltre trenta anni fa)* che impediscono al sistema di funzionare in modo corretto e efficiente. Giustamente, una riforma dell’università viene invocata da tempo da piú parti, poiché il contesto sociale è rapidamente mutato negli ultimi anni, ed anche per raggiungere i concreti obiettivi comuni dell’Unione Europea, che considera fondamentale il concetto di Società della Conoscenza, non nella direzione della competizione, ma in quella di una vasta e continua diffusione dei saperi.

Come nel 1980, si è proceduto in fretta, per timore che il governo potesse cadere prima dell’approvazione della legge, ma, a differenza di quella del 1980, la legge che è stata approvata qualche giorno fa non ha trovato una diffusa condivisione tra i lavoratori della conoscenza, tra i professori, i ricercatori (anche precari), gli studenti, poiché il quadro complessivo delineato sembra far incamminare l’università sulla strada del progressivo depotenziamento del sistema pubblico, statale, potendo far emergere anche conflitti di tipo costituzionale, come, per esempio, quello legato al diritto allo studio.
Nell’intervista che ci ha rilasciato alcuni giorni prima dell’approvazione definitiva della legge, Luigi Guerra, Professore Ordinario di Didattica e Pedagogia Speciale e Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna , in una visione di insieme problematica, illustra i punti principali della riforma, inserendoli nel contesto piú ampio di tutti i mutamenti previsti dall’attuale governo per l’università. [B.M.T.]


Da molti mesi si parla del Disegno di Legge per la riforma dell’Università. Quali parti comprende e cosa mira a normare?

Si può dire solo cosiddetta “riforma” dell’università, perché per parlare di riforma ci vorrebbe un disegno organico pensato in tutti i suoi aspetti e un piano di finanziamento rigoroso: mi sembra che, in questo caso, manchi molta organicità nel disegno e manchi comunque, come si sta vedendo nella cronaca politica, una previsione di spesa affidabile, se si pensa di fare una riforma a costo zero. Comunque, la cosiddetta “riforma” dell’università Gelmini è articolata in tre grossi capitoli. Il primo capitolo riguarda la governance, il secondo il diritto allo studio, il terzo il reclutamento del personale.

Cominciamo, dunque, a vedere da vicino il primo di questi tre capitoli?

Per quanto riguarda la riforma della governance, la cosiddetta “riforma” Gelmini tocca senza dubbio un nodo importante, per il quale ci possono essere anche alcune condivisioni. Certamente gli attuali meccanismi di governance del sistema universitario in questi anni hanno dimostrato di presentare numerose contraddizioni, legate ad alcuni problemi. Il primo problema è stato forse un’eccessiva autoreferenzialità del corpo docente, una certa tendenza a muoversi in modo troppo attento a pressioni interne, a esigenze anche di promozione di singole aree forti dell’università, al di fuori di un disegno di tipo nazionale. Vi è una considerevole difficoltà a uscire da una sorta di ‘Manuale Cencelli’, cioè dalla logica di difesa di enti che si dibattono al loro interno dovendo rispondere positivamente a tutti per garantire comunque l’unione: da ciò dipendono, dunque, le difficoltà di taglio, di programmazione, di rotta verso progetti condivisi (solo da qualcuno evidentemente), pur in un regime di democrazia. Allora, in questa direzione, la riforma ha previsto numerose semplificazioni, sulle quali ovviamente io non sono d’accordo. Una prima semplificazione ha riguardato, in una prima edizione della riforma, il mettere molte persone esterne all’università (fondazioni bancarie, enti locali ecc.), per garantire la rottura dell’autoreferenzialità. Una seconda soluzione ha teso a ridurre, comunque, la numerosità dei rappresentanti dentro i senati accademici: ora si è capito che non deve essere predominante il ruolo del fuori, ridurre la numerosità per dare una leadership più forte, una governance più forte, un ruolo al rettore troppo forte. Su questo, evidentemente, le contraddizioni che io indico sono che, pur essendo attento ai limiti di un eccesso di rappresentanza corporativa, la non-rappresantanza o comunque l’abbattimento delle soglie di rappresentanza faccia sí poi che la logica dei poteri forti dentro le università proceda in termini non governati. Un eccesso del ruolo del rettore, del consiglio di amministrazione e delle facoltà forti rischia di trasformare l’universitas in un’entità meno universale, attenta a logiche ancora più ‘corporative’ delle attuali. Credo che nelle attuali difficoltà di governance ci siano anche le forti inadempienze del governo, che non ha vigilato, che non ha fatto applicare le leggi. Io credo che sarebbe più sano credere di piú nel progetto dell’autonomia dell’università, sottoponendo le università a un severo giudizio relativo al rispetto delle leggi e delle soglie. Ciò non è stato fatto: ci si lamenta adesso di una proliferazione dei corsi e di atteggiamenti corporativi e autoreferenziali dell’università, per cui il ministero ha addirittura incentivato questa autoreferenzialità, ha aperto le università telematiche, non ha vigilato: basti pensare che le università della Sicilia hanno avuto, nell’ultimo decennio, molti piú finanziamenti di quelli che dovevano avere rispetto, solo per fare un esempio, a Bologna o a Milano. Sto semplicemente dicendo che per motivi – penso – di consenso il ministero non ha utilizzato gli strumenti che aveva di governo di un sistema che puntava sull’autonomia. Secondo me, bisognerebbe avere il coraggio di andare avanti, ma ognuno deve fare il proprio dovere. Certamente, molte università vanno fustigate, chi le doveva fustigare non l’ha fatto, chi si era comportato bene, ancora una volta, viene penalizzato, a questo punto, all’interno di un sistema che non guarda al merito e alla qualità.

Il secondo tema, invece, riguarda il diritto allo studio…

Per questo tema, l’approccio della cosiddetta riforma Gelmini è assolutamente ridicolo. Nel senso che ha costo zero, un po’ cercando di rovesciare il problema sugli enti locali, si eludono sia l’impegno alla costruzione di una classe dirigente, cioè di meccanismi che premino chi ha competenze, chi studia, al di là del censo, sia i problemi di una diffusione di cultura, che deve essere garantita forse anche a chi presenta un quadro di competenze intermedio – sto parlando degli studenti – in una logica in cui l’università serve (nell’ottica del documento di Lisbona) per garantire sia l’eccellenza sia la diffusione delle competenze presso una platea vasta. Io credo che il fatto che l’Italia sia uno stato che è ultimo soltanto dopo la Slovacchia nell’investire nell’educazione superiore in Europa la dica lunga, e di certo non si può parlare di diritto allo studio se non si stanziano opportune e specifiche risorse, certamente all’interno di un meccanismo vigilante, che stia attento che i soldi non vengano sperperati, ma certamente non si può pensare di fare del diritto allo studio a costo zero.

Il terzo capitolo coinvolge il reclutamento dei ricercatori e dei professori. Quali sono gli aspetti problematici della proposta Gelmini?

Per quanto riguarda il terzo livello, io credo sia l’unico livello sul quale, se venissero garantite le promesse fatte, si sia trovata una soluzione non dico ottimale certamente, ma una soluzione abbastanza condivisa: dare vita a delle idoneità nazionali, alle quali riferirsi per i concorsi comparativi locali, in un quadro che dia la certezza di sviluppo di carriera ai giovani meritevoli e che nello stesso tempo faciliti la gestione dell’attuale giungla, nella quale, forzatamente, di inadempienza in inadempienza, molte università si trovano, dovendo far fronte a una situazione assolutamente insostenibile. Credo in particolare che la soluzione dei novemila posti da associato in un piano quinquennale sia una soluzione percorribile: io probabilmente avrei anche posizione diverse, ma credo che quella sia abbastanza condivisibile, penso che sia una strada che possa essere percorsa. In questo contesto appare comunque delirante e offensiva, anche se proposta da settori del PD, la scelta di integrare le commissioni nazionali per il conferimento delle idoneità a docenti stranieri, quali garanti della qualità scientifica. Difficilmente è pensabile qualcosa di più provinciale di questo.

Anche oltre a questo specifico provvedimento legislativo, ci può indicare quali sono le direttrici fondamentali del complessivo progetto di riforma proposto dal Ministro Gelmini?

Io penso che dietro a questi tre capi sui quali ho avuto delle sfumature di giudizio si nasconda una comune volontà di distruzione del sistema pubblico universitario italiano. Il disegno non dichiarato ma che effettivamente si intravvede dietro queste provvidenze legislative va verso evidentemente una smobilitazione della maggior parte del sistema universitario, che è cosa assai diversa rispetto a quello che dicevo io di un governo attento a garantire che non ci siano sbandamenti all’interno del sistema universitario; una smobilitazione con una fortissima tendenza già iniziata ai tempi della Moratti a investire su un quadro di eccellenze garantito, sembrerebbe, dall’intervento sul privato. Una realtà socio-culturale come quella italiana in cui il privato ha scarsamente, quasi mai, anzi, direi, investito sul potenziamento di un sistema di ricerca pubblica. Quindi il giudizio finale è di un approccio governativo che si è mosso abilmente, prima con un battage pubblicitario televisivo e non solo televisivo, giornalistico, che ha giudicato l’università a partire da alcune sue disfunzioni,
le cui responsabilità erano in gran parte del governo, che le ha addebitate all’università stessa, divenuta cosí un nemico dissipatore di risorse. Nelle linee di riforma individuate, si colpiscono insieme il male e il bene, si butta via l’acqua sporca con il bambino e si azzera di fatto il sistema universitario, ormai diretto verso un futuro in cui la maggior parte dei nostri giovani non avrà la possibilità di studiare.
Nella mia Facoltà abbiamo dovuto chiudere due corsi di laurea quest’anno, se le cose andranno avanti in questo modo dovremo chiudere ben altri corsi di laurea, anche come Ateneo bolognese, non si parli degli atenei italiani, che sono fondamentalmente messi peggio di quanto non sia Bologna, in una realtà in cui andare all’università sarà sempre più difficile, in cui il cosiddetto premio della qualità non si vede neanche da che parte cominci, con anche degli accenni provinciali, a volte anche asseverati dall’opposizione come si è detto, quali quelli di pensare di salvare la qualità del sistema universitario perché si immettono nei meccanismi concorsuali dei docenti stranieri, che è una cosa – ripeto – che solo provincialisticamente si può pensare. Noi abbiamo bisogno di scommettere di più sul nostro sistema, sui nostri giovani e non soltanto sui nostri giovani. Il governo perversamente si è valso del battage mediatico per considerare sistemici i casi di ‘baronato’: in realtà bisogna fare delle distinzioni, usare dei meccanismi di controllo e identificare delle mission finali per questo sistema, e la mission – ripeto – deve sposare l’eccellenza con la diffusione; non ci sarà uno sviluppo per le nostre regioni, in particolare anche per quelle che presentano più ritardi rispetto all’Europa, se non con un investimento che vede ancora l’università essere protagonista di questi meccanismi di diffusione di cultura.

Per quanto riguarda la riforma del 3+2, molti sono scontenti e invocano un ritorno al passato. Secondo lei, si possono realmente far derivare anche da tale riforma le disfunzioni dell’università?

Io credo che, quando è stato lanciato il 3+2, si è cercato di farlo per cercare di garantire una soluzione all’annoso problema dei fuori-corso e cercare di dare un titolo più ravvicinato, il 3, che garantisse un elevato quadro di preparazione, ma che consentisse anche al massimo della popolazione di raggiungere un titolo universitario, e eventualmente riservando una fetta più esigua, controllata anche sul merito, il proseguimento degli studi: ma tale sistema dovrebbe essere difeso anche sul piano del diritto allo studio, altrimenti va a finire che poi vanno avanti soltanto quelli che ne hanno la possibilità economica. Questo ha causato dei problemi di realizzazione, certamente all’interno di questo c’è stata una discreta proliferazione, anche se le cifre del ministero sono sbagliate, perché contano sempre in modo assolutamente errato, non fanno i conti con i loro stessi data-base. Certamente le cose potevano essere fatte meglio, certamente in alcuni corsi è difficile pensare a un 3+2, tanto è vero che alcuni corsi sono tornati al ciclo unico. Io, personalmente, credo nel meccanismo del 3+2, diversamente da altri colleghi. Penso che tale sistema rientri in un meccanismo che tra l’altro è molto simile a quello anglosassone che ci consente di ragionare quindi anche in una comparazione con altri sistemi europei: ritengo che, con le razionalizzazioni, con le migliorie applicative del caso, il modello 3+2 vada difeso. Tornare a un modello 5 secco vuol dire tornare, secondo me, a dare potere alla parte non migliore dell’università: tutti pretenderanno un 5, o un 6 o un 7 o un 8, nella logica di una formazione infinita. Nei primi anni il 3+2 ha pagato, siamo riusciti a laureare una serie di persone che erano fuori-corso. Si tratta di capire per quale motivo adesso il meccanismo in qualche modo si è inceppato, perché anche tutta la gente rimane a fare il +2: ma questi sono problemi che vanno imputati all’università fino a un certo punto. Bisognerebbe porsi altre domande: come mai il sistema industriale italiano assorbe così pochi laureati e cerca invece diplomati? -perché costano meno? -perché non c’è scommessa sulla ricerca? e c’è soltanto applicazione? -come mai tanti giovani rimangono all’università, che sembra divenire una realtà per cassaintegrati? perché non assorbe il mercato, il lavoro? Dare la colpa all’università di meccanismi di questo tipo mi sembra così un po’ da pensiero debole. In realtà va vista la situazione delle università nel contesto più generale di un sistema economico del paese.

Un’ultima domanda: perché gli studenti sono scesi in piazza a manifestare contro la riforma Gelmini in forme anche esasperate?

Gli studenti chiedono di essere ascoltati: il mondo della politica sembra non contemplarli sufficientemente, nel complessivo contesto della crisi sembra negare loro prospettive concrete. La dimensione del dissenso non può essere messa a tacere con la forza, credo che solo nel confronto tra diverse idee, tra vari punti di vista possa sorgere un vero dialogo che dia voce a esigenze pluraliste. Solo tutte le forme non-violente di manifestazione del dissenso si inseriscono in un panorama di coesione e di creazione di spazi di effettivo raffronto. Il forte disagio sociale nato in un clima di incertezza economica e, dunque, anche esistenziale dovrebbe estrinsecarsi non nella cieca aggressività, ma in modalità comunicative comunque sempre rispettose degli altri e di se stessi. Tuttavia, ciò non può significare richiedere di addomesticare il significato, l’essenza del messaggio: in uno stato veramente democratico, laico dunque, la censura (anche quella velata e sottile) e la repressione (anche quella preventiva) non sono tollerabili. Non si possono far tacere le richieste di ascolto, di partecipazione all’elaborazione di soluzioni in ogni campo della vita politica e all’azione affinché tali soluzioni possano trovare una concreta realizzazione. Gli studenti, i giovani tutti chiedono di poter essere veramente valorizzati per le loro potenzialità e capacità, per le loro conoscenze e competenze, di poter frequentare scuole e università accessibili a tutti e contemporaneamente di elevato livello qualitativo (ben lontane dal modello che si autodichiara meritocratico, ma in realtà è solo selettivo su basi sostanzialmente classiste, proposto dal Ministro Gelmini), chiedono di avere sia maggiori opportunità lavorative sia una maggiore solidità occupazionale, senza che la flessibilità si tramuti in forme di precarizzazione destabilizzante o persino di prolungata disoccupazione disperante.


* Approvata dopo 30 anni di polemiche la riforma della docenza universitaria, M. Tosatti «La Stampa» 15/02/1980 n. 37, p. 5